Adriano Accattino

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2008

DAKAR-IVREA

Storia di dieci quadri africani e della loro trasformazione in otto nuovi quadri presentati al Festival di Antropologia di Ivrea 2008

Voglio raccontare la nascita di questi lavori. Da un amico viaggiatore in Senegal mi sono fatto comprare dieci tele di pittori popolari, di quel genere senza troppe pretese che si vende per le strade e nei mercati. Da Dakar un bel giorno questi quadri mi sono arrivati, di almeno tre artisti diversi, opere di pittura fresca e vivace, di stile differente tra loro ed invece coerente nell'ambito di ciascun autore, riconoscibile per la particolarità dei suoi segni. Con questi autori volevo collaborare e cioè operare insieme: certamente una collaborazione spuria e impropria, in quanto si sarebbe trattato di un mio intervento personale, quasi una manomissione, sulle tele africane, i cui autori oltretutto non ne avrebbero mai saputo niente; tuttavia, un’autentica collaborazione, in quanto il risultato sarebbe pur sempre stato costituito da inserimenti di diversa provenienza, i quali dovevano trovare un necessario equilibrio di coabitazione.

Con queste  perplessità e dubbi iniziali ho smontato le tele dai telai e le ho variamente ritagliate in pezzi, conservando l’unitarietà delle zone pittoriche che mi sembravano più interessanti e riuscite. Ho così ottenuto un gran numero di frammenti di varia forma e superficie. Questi pezzi ho poi preso a incollare su otto tele, secondo accostamenti assolutamente indeterminati, unicamente dettati dal mio gusto e dagli equilibri delle composizioni che a mano a mano mi si disponevano davanti. Ho poi steso dei colori diversi sulle parti delle nuove tele che non erano state coperte e ho tracciato dei segni vistosi di congiunzione e di delimitazione di zone particolari. Successivamente ho cominciato a inserire parole e frasi, scrivendole con vari colori e con caratteri non uniformi. Erano parole e frasi in latino che in quei giorni mi sembravano particolarmente adatte allo spirito e all'impressione che ricevevo guardando quei lavori, al punto di elaborazione in cui si trovavano. Erano parole come origo, genetrix, Africa felix et infelix e altre, che stabilivano dei sicuri riferimenti e richiami al continente da cui erano arrivati i quadri, appunto l'Africa.

Dopo di questo, ho cominciato a ridurre in pezzi alcune mie tele, lavori eterogenei che pur tuttavia mi piacevano e in quel momento mi parevano adatti a far compagnia a quegli altri pezzi già ricomposti. Mi sembrava infatti opportuno spendermi più decisamente in questa collaborazione non operando solo sul lavoro di altri ma mettendo in gioco e incorporando anche opere mie. In caso contrario avrei assunto una posizione minoritaria e quasi profittatrice: era dunque giocoforza compromettermi più copiosamente. Così ho ritagliato un certo numero di lavori e i frammenti ho incollato sulle nuove tele creando dei contrasti e delle improprietà sonanti ed efficaci.

Dopo molto tempo, un giorno festoso, con le mani inguantate ho sparso nuovo colore, soprattutto il giallo, sulle tele così come erano, ottenendo un effetto di omogeneizzazione da un lato e dall'altro di straniamento con il colore spesso e pastoso, steso con le dita, che conservava segni  in rilievo. Quest'ultimo intervento per nulla premeditato mi ha soddisfatto  per il suo amalgama che ha come familiarizzato le parti estranee tra loro in un insieme variegato ma anche compatto, differente ma anche consonante, estraneo ma familiare, diverso ma comune. Ne sono derivati otto quadri che si compongono  a partire da un'originale diversità e lontananza non solo estetica e fisica ma anche culturale e raggiungono un'unitarietà che è come una specie di convivenza pacifica e felice di uomini di origini e costumi e lingue e culture diverse, una unitarietà che è tollerante dei diversi e delle diversità, nutrita di scambi, intersecazioni, contaminazioni. Questa serie di quadri ha dunque un valore paradigmatico in quanto si estende e si prolunga verso  un ideale convivere e risulta quanto mai intonata e coerente con lo spirito e gli auspici del Festival di Antropologia.

 

IL MONDO NUOVO

Questo lavoro, esposto a Vercelli e creato in collaborazione con Roberto Gianinetti, è l'espressione di un impegno civile e anche lo sfogo di un'indignazione ormai incontenibile nei confronti dei politici e del loro comportamento. Si tratta di un'indignazione antipolitici e non antipolitica. Ora bisognerebbe discutere se è legittimo caricare di un tal senso indignato un'opera artistica o se questa invece è del tutto inadatta ad esprimerlo e a rappresentarlo. Ma, anzitutto, ciascuno può servirsi di ciò di cui dispone e non d'altro; e poi un impegno o una denuncia o anche un semplice sfogo sono stati affidati innumerevoli volte nel passato all'arte. Ammettiamo dunque che sia possibile affidare un tal compito all'arte e alle sue opere e veniamo al nostro lavoro. Quali elementi lo compongono? Elementi verbali ed elementi figurativi o iconici; i primi sono costituiti anzitutto da una frase "Il risveglio della ragione sconfigge i mostri" che è il rovescio della frase appuntata da Goya nei suoi "Capricci". I mostri che il risvegliarsi della ragione sconfigge sono appunto i politici, gli uomini animali che della politica hanno fatto una professione danarosa, e il risveglio della ragione o della coscienza li elimina irrimediabilmente. I quattro appesi sono definiti rispettivamente parassiti, prosseneti, portavoce e parolai, tutte categorie che iniziano con la p, come politici appunto. Una seconda frase campeggia nella parte sinistra dell'opera e prende le mosse dall'Apocalisse, tirando appunto in ballo "cieli e terre nuovi" che s'inaugurerebbero quando gli alberi della cuccagna dei politici fossero trasformati in alberi della libertà da cui appunto dondolerebbero quei fantocci. Cieli e terre nuovi richiamano una citazione pittorica operata da Gianinetti nel suo lavoro linoleografico, una citazione da “Il mondo nuovo” di Giandomenico Tiepolo, affresco conservato a Venezia che a mio modesto parere veramente inaugura un mondo nuovo con i suoi personaggi colti di spalle, intenti a guardare chissà dove. Quell'affresco liquida il mondo aristocratico con il quale la fa davvero finita, come noi dovremmo fare con il ceto politico.
La nostra opera è quindi composita, con elementi di diversa provenienza, e ambiziosamente caricata di un compito sovrumano, quello di proiettarsi anch'essa verso un"mondo nuovo". Non mi illudo che sia riuscita in questo duro compito che le abbiamo posto addosso; certamente è rimasta schiacciata da quel peso, ma se l'artista non tenta quello che gli altri non tentano, se non si carica di missioni ambiziose, di sogni improponibili, che cosa lo differenzia da un uomo comune?

OMAGGIO A LAMBERTO PIGNOTTI

Abbasso Marcel
Abbasso Marcel che ha introdotto la frigidità nell'arte! Questa frase contesta radicalmente tutto il calcolo, tutta la concettualità che è dilagata da Duchamp fin qua. La frase è tremendamente veritiera e sbrigativa: accusa Duchamp di aver congelato in arte ogni corporalità, ogni calore, ogni passione che non fosse cerebrale. L'accusa coglie nel segno, forse non apre al nuovo ma chiude col vecchio. E la frase tracotante è sopraggiunta al termine di un lavoro di tre livelli: al principo un'opera importantissima del 1907, di Picasso, Les demoiselles d'Avignon, che tutti conosciamo e ammiriamo per al sua spregiudicata efficacia. Ebbene, nel 2007 Lamberto Pignotti festeggia il centenario riprendendo il lavoro di Picasso in una serie di quattro collages dove le teste delle demoiselles sono issati su corpi formosi e svestiti di donne fotografate. Il risultato è caloroso, ironico, divertente, significativo di un segnale che per definirlo con una parola è chiaramente anticoncettuale, anche se tutta l'operazione è indubbiamente concettuale. Quei corpi vivi pur presi in un circolo concettuale non restano per nulla concettuali, ma diventano calorosi com'è giusto che siano i corpi. Les demoiselles in tal modo rivivono e acquistano una consistenza corporale. Nessuno avrebbe potuto con maggior effetto richiamarle in vita. Sono persino più vitali di quando furono dipinte nel 1907.
L'omaggio di Pignotti riesce perfetamente: Picasso e le sue demoiselles risultano rivitalizzati come sarebbe rivitalizzato un copro dipinti che fosse sostituito da un corpo vero o fotografato. Pignotti definisce stornante la sua rivisitazione e stornate o stravolte le demoiselle e in effetti stravolte cioè miracolate sono in quanto il disegno ls pittura si sono trasformate in fotografie di corpi veri.
Le demoiselles stravolte mi hanno enormemente affascinato; subito una di esse mi si è collegata alla Gioconda, una Gioconda anch'essa stravolta come quella con i baffi disegnati da Duchamp. E' la tavola più bella di Pignotti, quella di una demoiselle con le braccia alzate sopra la testa e ripiegate; si tratta di una vera e propria bellezza degna di stare alla pari con la Gioconda, per il suo sorriso candido e stupito. Ma è senza baffi e allora il gioco osceno rapporta subito la peluria della Gioconda appena segnata a matita da Duchamp con l'altra leggera peluria che si ribella al disegno di uno slip minimale. La Gioconda di Pignotti vince sicuramente i confronto con quella di Duchamp e la ragione viene maliziosamnete attribuita ai baffi che la Gioconda di Pignotti avrebbe pi sottili e delicati.
Il secondo innesto di Pignotti immediatamente mi rimanda all'odalisca bionda di Boucher che assune la stessa posizione dell'odalisca di Pignotti, ma questa pur meno soavemente ambientata offre come dice il cartiglio un punto di vista più profondo. In soatnza l'odalisca di Pignotti è maliziosamente più scoperta e offre più vaste intimità. Allora subito le appaio e con faccia tosta affermo che l'odalisca di Pignotti ha lo sguardo più arguto, che è variante addomesticata di acuto e penetrante. In effetti l'odalisca blonde ha lo sguardo tondeggiante come i suoi glutei egli occhi ha come bolle. La dmoiselle di Picasso, assunta da Pignotti, si presenta quasi di profilo con l'occhio che davvero pare arguto, o se non arguto almeno ben disposto.
Ne terzo appaiamento il lavoro di secondo grado di Pignotti viene rapportato non più con un'altra donna ma con un uomo, un essere speciale come l'Hitler di Muarizio Cattelan che si trova inginocchiato davanti a un angolo di muro. Forse prega. La donna di Picasso ha un volto segnato e selvaggio e si trova issata su un corpo pignottesco evidentemente disposto a tutto La relazione o meglio il contrasto che subito si rivella è tra il muro impenetrabile che il Fuhrer invano sembra pregare e che si defnisce senza aperture, mentre la donna dal volto segnato e selvatico, forse una zingara,con evidenza di aperture sa offrirne. I collegamenti, le rlazioni, i rapporti contrastanti sono sempre di livello corporale, quasi in contrapposizione con gli espedienti di tipo invariabilmente astratto e intellettuale che hanno caratterizzati l'arte da Duchamp fino a oggi. Così il lavoro si èsviluppato su tre ivelli, da Picasso a Pignotti e al successivo passaggio e questi tre piani o livelli si sono levati per contestare una fabbrica d'arte che si è molto innalzata e che sembra quasi un grattacielo a cui non fa certo paura la nostra casa di tre piani. Ma in giro volano strani insetti capaci di esplodere.

 

L'ETA' DI POLLOCK

Sembra che Jackson un giorno dei suoi ultimi chiedesse a un amico, cui aveva mostrato un suo lavoro, se questo potesse ancora considerarsi un quadro. Io credo che da quella domanda sia iniziata la fase ultima dell'arte, quella tuttora attuale, del dubbio sostanziale, della perplessità, dell'incertezza. Appunto il dubbio persistente sulla vanità, sull’assenza di senso del fare artistico costituisce una costante del nostro fare e vivere nell'arte. L'arte mostra tutta la sua gratuità e casualità: ecco che si prova di tutto, si sperimentano passaggi che non hanno mai avuto a che fare con l'arte, ci si affida alla scienza e si presentano applicazioni tecnologiche come se fossero arte. Ma se queste forzature sono controproducenti c’è però da rilevare che l'incertezza è anche una risorsa, per cui è più recettivo e sensibile un artista nel dubbio che nella certezza.  Ugualmente il fatto di non possedere una sigla riconoscibile ma vagare da una  modalità all'altra, sperimentando tutto e non fermandosi su niente, attribuisce sicuramente alti livelli di elasticità. Così l'artista attuale risulta privo di uno stile, mentre abbraccia molti stili. Questo determina alcune conseguenze: il lavoro dell'artista non è più immediatamente riconoscibile poiché presenta aspetti sempre nuovi e il segno dell'artista non ha più quelle caratteristiche che lo facevano immediatamente identificare. Il panorama risulta incomparabilmente più mosso e variegato, fantasioso. Il mondo è come se si allargasse e si aprisse mostrando enormi possibilità.

Con numerose digressioni, l’ipotizzata Era di Pollock dura tuttora: benché siano passati molti anni da quell'affermazione, siamo ancora a quel punto, forse ancora più incancrenito di allora. Siamo allo sbando e tanto vale assumere questo stato e le sue conseguenze come elementi orientanti: il pluristile che consiste nell'assenza di uno stile conformante e nell'abbandono a più stili, a diverse poetiche che contemporaneamente agiscono e interagiscono. Inoltre l'artista, che nei tempi passati si è trovato ad andar deciso verso la riconoscibilità del proprio segno e l'identificabilità della propria arte, ora procede nella direzione opposta, quasi a far perdere le proprie tracce. Dove prima cercava di differenziarsi ora si confonde, immergendosi nella globalità che lo circonda. Dunque le condizioni incerte e dubbiose, il senso di vanità, di esaurimento e di superfluità di ogni fare artistico determinano una reazione che si esprime nella pluralità degli stili e delle modalità che un artista adotta, nella loro confusione e mescolamento, nel passaggio frenetico da uno a uno successivo. Un'altra conseguenza è che l'artista, che finora voleva distinguersi per farsi riconoscere, ora fa di tutto per dissimularsi e rendersi irriconoscibile.

L'opera, che insieme con Franco Gabotti si è concepita, si presenta come un esempio di appartenenza all' Era di Pollock con le sue evidenti caratteristiche: il suo soggetto è indefinito, la sua composizione non è univoca. C'è in essa troppo e troppo poco, non si capisce che cosa vuol significare né  risulta coerente nelle sue parti. Sembra un miscuglio di diversi quadri, un collage caotico. L'unica chiarezza l'adduce la frase emblematica. Il quadro si offre come quadro al limite della stessa nozione di quadro, come recita la domanda che vi è inscritta. Ma che cos'è un quadro che non è quadro? Noi crediamo che la nozione stessa di quadro abbia l'elasticità sufficiente per ospitare quadri estremi, quadri al limite del quadro, quadri non più quadri  La nozione di quadro può superare  nel suo dilatarsi la nostra stessa immaginazione. L'autore vi è poi del tutto inidentificabile, in quanto nulla vi è di specifico che consenta di riferirsi a una modalità già nota e conosciuta. L'autore vi è imprendibile: sembra che si sia preoccupato di non lasciar tracce; si è defilato, si è camuffato, facilitato in questo anche dalla sua anonimicità. Si tratta dunque di un'opera non rilevante per le sue caratteristiche spurie e confuse, ma un'opera che rientra a pieno titolo nell’Era di Pollock, un'era di dubbio radicale sul senso stesso del fare arte e sullo stesso appartenere o rientrare nel concetto di arte e di quadro di ciò che si è prodotto.
Un'opera in questo senso esemplare.

 

TRE OPERE SINGOLE